La Roba, amore, miseria e sconfitta della campagna di fine ‘800

In occasione dei 100 dalla morte di Verga, va in scena al Teatro Quirino “La Roba”, opera verista dell’autore siciliano, per la regia di Guglielmo Ferro, con Enrico Guarnieri, più volte interprete di personaggi verghiani, qui nel ruolo del protagonista Don Mazzarò.
La messa inscena è essenziale e tuttavia simbolica ed efficace, troneggia al centro di un campo un olivo, simbolo del lavoro agricolo fonte di sostentamento per “i più” nell’epoca del dramma, la fine dell’1800.
Quell’olivo simboleggia anche la proprietà, la cosiddetta “roba” protagonista della vicenda, la terra e tutto ciò che ci sta sopra; questo termine si ripete costantemente in bocca al “padrone”, il proprietario terriero nonché datore di lavoro, quello stesso padrone che come l’olivo sta al centro delle vicende e a cui si rifanno con timore tutti i suoi braccianti.
Questa storia ci racconta la campagna e i suoi miseri abitanti.
I primi elementi che dominano sono la povertà dell’epoca e la fatica, la difficoltà di sostentamento dei contadini, “gli ultimi”, che fanno di tutto per sopravvivere e costruire una loro vita familiare, tuttavia corredata di miseria morale e materiale.
Non vi è possibilità di riscatto sociale ed economico. Contraltare è la ricchezza del padrone Mazzarò che ha quasi potere decisionale non solo di lavoro ma anche di vita e di scelte sui suoi braccianti, “le bestie” come drasticamente li chiama; egli è un uomo ruvido, temuto e rispettato che da zero si costruì con determinazione e sacrificio un impero terriero.
Si raccontano quindi gli amori nati tra gli olivi, i sogni di metter su famiglia, i canti: il chiacchiericcio popolare è protagonista, i pettegolezzi, le riflessioni nei momenti di comune che scaldano le persone dopo una giornata di lavoro.
I personaggi esprimono spesso sentimenti di ingenuità e semplicità, bontà e timidezza in una società arcaica, desueta oggi, con delicatezza e poeticità. Le musiche allo stesso modo accompagnano “con riguardo”, dolcezza e mestizia l’azione.
Ma la sventura è sempre alle porte, e non colpisce solo i deboli contadini. Ne crea infatti un’iperbole il padrone Mazzarò, che Guarnieri porta sapientemente e con energia attraverso ad un delirio crescente: il suo scopo di vita è di accumulare sempre di più e “mantenere” la roba, nulla va perso o ristretto e una stagione sfortunata o non produttiva, una morte, sono catastrofi irrimediabili.
Rientra perciò anche lui tra i “vinti” dal destino, nella tipica visione pessimistica della vita di matrice verghiana, espressa con verismo, corrente “del tempo” di cui lo stesso scrittore è il maggior esponente. Nonostante alcuni gesti di disponibilità e bontà iniziali forse destati da un velato interesse, la sua Hybris davanti a vari segnali di perdita lo porterà a distruggere tutto pur di non lasciare il proprio sforzo, la sua “Roba” ad altri.
Iconico l’incipit dello spettacolo in cui egli vagando per i possedimenti in lungo e largo chiede a chiunque “Di chi è qui? E qui?” La risposta è ovvia.
Recensione di Demian Aprea