Anatomia di un suicidio di Alice Birch al Piccolo di Milano

Anatomia di un suicidio di Alice Birch al Piccolo di Milano
Reading Time: 4 minutes

Al Piccolo Teatro Grassi, dal23 febbraio al 19 marzo per la prima volta in Italia Anatomia di un suicidio di Alice Birch. Una nuova produzione Piccolo Teatro di Milano, un progetto di lacasadargilla, con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni. Lo spettacolo sarà in scena dal 23 febbraio al 19 marzo.

Anatomia di un suicidio della drammaturga britannica Alice Birch, vincitrice con questo testo del Susan Smith Blackburn Prize e nota al grande pubblico per avere firmatole sceneggiature di film come Il prodigio (The Wonder, 2022) o Lady Macbeth (2016)e di serie TV di successo come Succession e Normal People, viene messo in scena, per la prima volta in Italia, con la traduzione di Margherita Mauro, da lacasadargilla, collettivo artistico associato al Piccolo Teatro di Milano, che produce lo spettacolo. Diretto da Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, Anatomia di un suicidio debutta in prima assoluta giovedì 23 febbraio al Teatro Grassi di via Rovello.

In scena, in ordine alfabetico, Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Alice Palazzi, Federica Rosellini, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Francesco Villano e con Anita Leon Franceschi. Le scene sono firmate da Marco Rossi, i costumi da Anna Missaglia; il disegno luci è di Luigi Biondi,i paesaggi musicali di Alessandro Ferroni e il sound design di Pasquale Citera; la cura degli ambienti video di Maddalena Parise e la drammaturgia del movimento di Marta Ciappina.

Il testo di Anatomia di un suicidio sarà pubblicato da ilSaggiatore, nella collana editoriale del Piccolo Teatro, con la traduzione di Margherita Mauro e la prefazione di Concita De Gregorio, e sarà disponibile nelle librerie dal 24 febbraio 2023.

Carol, Anna, Bonnie. Madre, figlia e nipote. Tre generazioni di donne,tre epoche, un’unica linea femminile, dodici attori simultaneamente in scena. Il testo, come una partitura musicale, diviso in tre ambienti, è un affresco sociale e familiare, un’indagine vertiginosa sull’amore, sulle eredità e sul generare. Una complessa, raffinata costruzione temporale lega le tre donne, il loro resistere o soccombere a una pulsione di morte che ‘sussulta’ nelle loro vite e che si svela come un conturbante lascito familiare e storico, tutto al femminile.

Le linee narrative delle protagoniste– 1972-1993 (Carol); 1999-2004 (Anna); 2033-2041 (Bonnie) –

seguono un doppio movimento temporale: diacronico, muovendosi lungo i tre assi temporali delle loro vite, ma anche simultaneo, dal momento che, in scena, le tre storie accadono in contemporanea, riverberandosi l’una nell’altra. Il racconto è sostenuto da un raffinatissimo ingranaggio ritmico e linguistico, grazie al quale, quando una linea narrativa è attiva le altre due, visibili in parallelo, ne sono il contrappunto, il frutto o la matrice.

Carol, Anna, Bonnie si parlano e si cercano attraverso il tempo, le loro parole riecheggiano in una grande casa, le cui mura, negli anni, custodiscono destini, tramandano intenzioni, auspici, domande.

Le loro esistenze sono “infestate” dall’amore, dalle aspettative e dal dolore degli altri, mariti, compagne, familiari, amiche e amici, colleghi e quasi sconosciuti. Desideri e pulsioni si intrecciano agli incontri e ai tentativi di sopravvivenza, di resistenza alla vita che ognuna delle tre donne mette in atto.

Più che protagoniste in senso classico, sono tre fuochi narrativi, come vere e proprie lenti di ingrandimento su questo grande affresco che è Anatomia di un suicidio. Un racconto corale che si muove tra le epoche e che mette in atto, allo stesso tempo, nellapropria struttura linguisticaun esperimento di psichica collettiva per attivare immaginari, tracce memoniche e ‘rumori genetici’che si diffondono per contagionelle vite delle une e degli altri.

È un testo e un dispositivo dove il vero protagonista èforse proprio quel groviglio che è la vita, dove tutti gli incontri,anche i più minuti,lavorano come talismani e attivatori, momenti diquel presente continuo che è la molteplicità delle voci di cui si fa la comunità che siamo, che ereditiamo e che lasceremo al futuro.

Carol si muove nel mondo come distratta dalla vita, c’è un qualcosa che la attira altrove e che ha il sapore liquido dei fiumi. È in bilico fra la vita e la morte. Prova con tutte le sue forze a essere una buona moglie, prova a lasciarsi amare dal marito John. Prova.

Malgrado questo Carol ha una vitalità luminosa che trasmette alla figlia Anna. Semplicemente, ad un certo punto, il legame cede. Carol si tiene, si tiene aggrappata alla vita per amore: “Io sono rimasta. Sono rimasta. Finché ho potuto” – dice di sé – agganciata dall’amo teso di Anna e si incammina a morire quando questa è, finalmente, quasi una donna.

Anna è nel mezzo, si muove tra la propria madre e la figlia. È un ripetitore, un ponte sensoriale tra ciò che viene prima e ciò che accadrà dopo. È la più contraddittoria, associativa, brillante e sensitiva, manipolatrice come solo le eroinomani sanno essere. “Tutto è semplicemente caos da quando se ne è andata” dice Anna della madre. In quel caos vitale Anna sembra attingere a una comprensione sotterranea e antica.

Resiste, si disintossica, si sposa, ridipinge le pareti della casa di famiglia. Ma quel varco sotterraneo si riapre nel momento in cui è incinta: sente un sopra e un sotto, sente tutto, sente troppo. Il suo suicidio è come la fine dell’arco luminoso di una stella, una blue straggler, la vagabonda blu, che a un certo punto semplicemente esplode per eccesso di vita. Alla nascita di Bonnie.

Bonnie la incontriamo a poco più di trent’anni, medico esperto in un ospedale, intelligente, fin troppo percettiva, silenziosa. È l’ultima della stirpe. Non sa quasi nulla della madre e della nonna – “a quanto pare” è la sua frase ricorrente. Bonnie prova a vivere una vita normale, prova a rompere un guscio di cui non sa la provenienza.

Prova. A farsi amare, a lasciarsi invitare dai colleghi. Ma c’è quella casa che si tramandano di madre in figlia dove i ricordi si attivano quasi inconsapevolmente, c’è qualcosa che le parla dal passato. Ed è allora che Bonnie decide di togliersi la possibilità di generare per chiudere un tratto di storia familiare e fare, finalmente, legame con altro.

Con la bellezza di un frutteto, con l’acqua di cui sembra circondata, con un coniglio di cui piange, libera, la morte. L’eredità per Bonnie, proprio come per Carol, sta negli “spazi tra le cose”, nella fine di qualcosa come possibilità d’altro.

Presentazione

www.piccoloteatro.org

www.ildogville.it

ildogville.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *