Interno Bernhard, due solitudini di vita, disagio e arte

Interno Bernhard, due solitudini di vita, disagio e arte
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Nella pièce “Interno Bernhard” per la regia di Andrea Baracco, in scena all’Argentina di Roma, gli attori Glauco Mauri e Roberto Sturno, in due storie del celebre scrittore Thomas Bernhard, sono accomunati dalla solitudine e dalla lotta contro un passato insofferente espressa dai loro personaggi vecchi e consumati dal tempo, uniti da un fiume di parole e di coscienza in cui si perdono e che riempie il nulla o questo tempo altrimenti vuoto.

E’ proprio il tempo un elemento significativo per entrambi, esso appare immobile, perso, statico e irreale, ormai totalmente passato ma a loro presente e ripetitivo.

Più irascibile e sgraziato, burbero, gonfio di malessere e cinismo, l’intellettuale interpretato da Sturno attende inutilmente un riconoscimento universitario del suo“Trattato” in cui critica l’uomo e ne auspica la distruzione come unica soluzione ai problemi e al caos del mondo.

L’ambiente con una scenografia grigia allungata è praticamente vuoto e rappresenta metaforicamente con efficacia la sua solitudine interiore. Egli odia l’uomo, cerca di mettere in riga tutti e sopporta l’unica presenza della serva che tuttavia maltratta, ma a cui è in qualche modo legato da anni.

L’attore esprime in modo convincente questo fastidio perenne per ogni idea, per ogni singola cosa che si muova, per lo stare al mondo, per ogni avvenimento.

Ironica la presenza di universitari quasi babbei, che non capiscono il significato della sua opera e la esaltano contro sé stessi. Riflessione sul male di vivere, sull’inutilità di arte e filosofia a scomporre questo caos umano.

Malinconico e visionario l’attore impersonato da Mauri, che per trent’anni ogni mattina indossa la maschera di Lear allo specchio, incapace di ritornare sul palco dopo esser stato processato e cacciato da Lubecca, dove ricopriva un ruolo di direttore artistico.

Vive di ricordi che si alternano ad incubi e presenze umane e animalesche, grottesche e irreali come gli appaiono anche le persone che raramente transitano nell’albergo in cui si trova. Fantasmi che ha accettato, che quasi non lo scompongono più, che forse sono gli stessi personaggi con cui visse la scena teatrale un tempo.

A differenza della prima storia in questa il protagonista, seppur affranto da un accorato sconforto per la perdita della possibilità di salire sul palco, vive in una bolla, in attesa di un “Godot” impersonato da un direttore artistico che gli può dare l’ultima chance.

Questo vecchio in uno spazio ovattato e poetico incarna una figura anche dolce a suo modo, trasmette rispettivamente il rimpianto e la speranza. Intensa l’interpretazione di Mauri e toccante la sua riflessione sulla vocazione dell’attore e dell’Arte anche contro la società se necessario, contro tutto, come qualcosa di più elevato, dotato di spirito.

Colpisce la bellezza di un attore che in scena parla al pubblico“ dell’attore in rapporto al pubblico” rendendo lo spettatore per un attimo personaggio vivente della storia. Uno strano e straniante metateatro.

Recensione di Demian Aprea

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