CINEMA FASCISTA. La propaganda del ventennio oscuro

CINEMA FASCISTA. Come già aveva fatto con la radio, Mussolini cerca di utilizzare anche il cinema come mezzo di propaganda e di “educazione fascista” delle masse. Lo fa attraverso una serie di iniziative indirizzate al sostegno e al rilancio della cinematografia italiana che cercava di superare la crisi degli anni ’20. Siamo in un periodo dove l’arretratezza delle tematiche e dei moduli espressivi aveva ceduto alla concorrenza del rinnovato cinema europeo e alla grande capacità produttiva di Hollywood. Basti pensare che nel periodo 1920 -1938, la media annua degli incassi di pellicole non italiane varia dal 55 al 70% del totale, censura permettendo.

Assistiamo così alla nascita dell’istituto LUCE (L’Unione Cinematografica Educativa, 1924) per la produzione documentaristica e informativa a scopo propagandistico. Tipica ne è, ad esempio, la costruzione dell’immagine del Duce come perfetta incarnazione degli auspicati valori virili, militari e rurali del popolo italiano.
Seguono l’istituzione della Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia (1932), e la creazione della Direzione Generale della Cinematografia (1935) con il compito di coordinare tutte le attività del regime in campo cinematografico. Menzioniamo poi la creazione dell’Ente Nazionale Industrie Cinematografiche (1935), ente statale di produzione cinematografica a cui fa capo la prestigiosa scuola di formazione del Centro Sperimentale di Cinematografia. Infine durante il ventennio di dittatura, Il fascio dà vita all’accentramento degli studi di produzione a Cinecittà (1937).

Il Cinema fascista e il controllo della produzione cinematografica
Al crescente sviluppo di questo vasto apparato di istituzioni e strutture operative si accompagna un intervento sempre maggiore dello Stato nella produzione cinematografica. Il controllo viene infatti condotto attraverso una serrata attività di partecipazione al finanziamento delle pellicole, di premi alle opere di maggior successo e di protezionismo. La legge Alfieri del 1938 definisce infatti le restrizioni sull’importazione di film esteri. È una situazione che permette uno stretto controllo censorio (già attivo dagli inizi degli anni ’20) e ideologico del Cinema considerato come importante macchina al servizio del Duce.
L’incremento della capacità produttiva e delle idee innovative
D’altro canto, un simile incremento di capacità produttiva e di possibilità artistiche diventa di stimolo al dibattito teorico e alle idee innovative. Permette infatti ai migliori autori di ottenere risultati validi e interessanti pur nel limitato ambito concesso dai dettami del fascismo, e spesso in contrasto più o meno aperto con essi.
Si tratta di una caratteristica che, in questo periodo della storia d’Italia, il cinema condivide con altre forme d’arte, dalla letteratura alle arti figurative. Benché indirizzato a fini retrogradi e oppressivi, l’intervento di promozione dell’arte italiana portato avanti dal regime è la prima forma di modernizzazione su larga scala e di internazionalizzazione di un ambiente artisitico spesso arretrato e del tutto autoreferenziale.
Le prime “disobbedienze” ai dettami del fascismo
La modernizzazione avrà come risultato una presa di coscienza e la realizzazione di nuove idee che vanno ben oltre quello che il fascismo è disposto a permettere. Le conseguenze si sarebbero viste appieno nella Resistenza e nel dopoguerra. Si consideri inoltre che le menti più lucide tra quelle incaricate all’organizzazione dell’indottrinamento attraverso il cinema (come ad esempio Luigi Freddi, che dal 1935 guidò la Direzione Generale della Cinematografia) preferiscono operare attraverso pellicole in grado di attrarre per meriti artisitici (veri o presunti) piuttosto che per pura propaganda. Si calcola che di circa 800 film prodotti in Italia tra il 1930 e il 1943, solo il 13% sono opere di chiaro intento propagandistico.

Il dibattito si svolge in primo luogo su riviste di elevato livello teorico, come Bianco e Nero (la rivista del Centro Sperimentale di Cinematografia), Cinema (diretta da Vittorio Mussolini, e con collaboratori della levatura di Visconti, De Santis e altri padri del Neorealismo) o Cinematografo (in origine legata ad ambienti culturali cattolici e alla quale collaborarono Alessandro Blasetti e Luigi Gedda). Questi ed altri validi registi riescono a caratterizzare e a ravvivare una produzione che, data la situazione politica, si presenta mediocre e appiattita.

Il Cinema di Blasetti e Genina
Blasetti, che sperimentava con passione le nuove tecniche come il sonoro (Resurrectio, 1930, girato qualche mese prima (ma distribuito dopo) del primo film sonoro “ufficiale”, La canzone dell’amore di Giuliano Righelli) e il colore (col documentario Caccia alla volpe nella campagna romana, 1938), dona un risalto quasi neorealista ai personaggi e ai paesaggi dei film.
Ricordiamo: Terra madre (1931, un’esaltazione del ruralismo fascista) e 1860 (1933, reinterpretazione in chiave fascista del Risorgimento) che diversamente sarebbero rimasti alcuni tra i tanti film del fornitissimo e stereotipato genere “storico” propagandistico. Lo stesso fa Augusto Genina con la sottile caratterizzazione psicologica ed emotiva dei personaggi di L’assedio dell’Alcazar (1940), salvandolo così dal rimanere una triste menzogna propagandistica sulla guerra di Spagna.
Il genere storico e quello calligrafista
Legati al genere storico sono i film di attualità bellica. Tra questi, per la purezza della narrazione e una potente essenzialità delle scene, vanno menzionati: Uomini sul fondo (1941) e Uomini e cieli (1943) di Francesco De Robertis. Ricordiamo anche la “trilogia” di Rossellini: La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942) e L’uomo della croce (1943).

Condottieri (1936), di Luis Trenker, una pellicola che vorrebbe esaltare la figura del Duce narrando le imprese di Giovanni dalle Bande Nere, si salva dall’appiattimento propagandistico grazie a un immaginario ricco di richiami all’arte quattrocentesca e alla metafisica. Il film può anche essere considerato un tramite tra il filone “storico” e quello calligrafista. È un cinema questo dove l’ispirazione storico-letteraria diventa spunto per una ricerca formale raffinata. Si presenta infatti ricco di interessi estetici, di citazioni e di interconnessioni con l’arte figurativa e la filosofia. Piccoli capolavori sono infatti: Via delle Cinque Lune (1942) di Luigi Chiarini e Un colpo di pistola (1942) di Renato Castellani.
Altra interessante opera di “transizione” è Montevergine (1939). Si tratta di un tardivo capolavoro di Carlo Campogalliani, dove l’ambiente rurale del sud è sospeso tra spunti quasi neorealisti e metafisici.
L’influenza degli ideali piccoloborghesi
Alla propaganda degli ideali “militanti” del fascismo si affianca poi quella degli ideali piccoloborghesi. L’intenzione è mostrare una società corporativa, pacifica, tranquilla e anche brillante. Secondo la propaganda tutti possono conquistare la felicità ideale delle “mille lire al mese” dell’omonimo film di Max Neufeld (1939). È il genere dei telefoni bianchi (dal telefono che caratterizzava l’arredamento estroso e lussuoso delle scenografie di questi film).

Anche qui la produzione è ricca, e i temi variano dalla tragicommedia “moraleggiante” alla commedia brillante.Vi si cimentano anche molti artisti di talento. Tra i più noti abbiamo: Clara Calamai, Valentina Cortese, Alida Valli, Amedeo Nazzari, Gino Cervi, Rossano Brazzi, Vittorio De Sica. Non mancano opere di comici come Totò ed Erminio Macario, e di registi come Mario Mattoli, Mario Camerini, Carlo Ludovico Bragaglia e Camillo Mastrocinque.
Le contraddizioni del Cinema fascista
Qualche merito, per modernità e originalità della narrazione o delle tecniche di ripresa hanno: La segretaria privata (Goffredo Alessandrini, 1931), La telefonista (Nunzio Malasomma, 1932), L’avventuriera del piano di sopra (Roberto Matarazzo, 1941). Sono però soprattutto i film di Mario Camerini ad essere innovativi. Camerini, paragonato a René Clair per il sottile umorismo e la levità di svolgimento della narrazione, gira: Gli uomini che mascalzoni! (1932), Darò un milione (1935), Il signor Max (1937), Una romantica avventura (1940).

Il Cinema Fascista è colmo quindi di forti contraddizioni. Da un lato l’artificiosità di molti dei personaggi o delle situazioni con ambientazione esotica appare come un tentativo di distogliere l’attenzione dai reali problemi del Paese. Dall’altro lato, c’è un tentativo (seppure ingenuo e superficiale) di un collegamento ad una realtà internazionale più moderna, che durante l’Italia fascista (rurale e provinciale) manca.
Il Cinema fascista durante la Repubblica di Salò e la liberazione
La produzione del periodo di Salò rimane assolutamente insignificante (una ventina di film di cattiva qualità), ed è andata quasi del tutto perduta. Infine, con la tragedia della guerra, e nella zona liberata dagli alleati, il cinema comicia ad affrontare i problemi e le contraddizioni dell’Italia della dittatura. Ne mostra la cruda oggettività con sensibilità e dedizione a questo punto finalmente prive di ogni retorica.
Arrivano, verso la caduta del fascismo, opere che anticipano la stagione successiva. Sono film che possiamo considerare l’inizio del Neorealismo: Quattro passi tra le nuvole (1942) di Blasetti, I bambini ci guardano (1943) di De Sica e il cult Ossessione (1943) di Visconti. Questo nuovo filone non parla della guerra fascista perché la guerra che conta non è ancora iniziata.
La vera guerra è ora la lotta per la ricostruzione e contro il dolore e l’oscurità del ventennio. La durissima guerra si svela proprio nelle immagini delicate e impeccabili del nuovo rifiorire del cinema.
Di Marco Albè